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I VINCITORI

Le poesie vincitrici delledizione 2025 del Premio Nazionale di Poesia “P. Borgognoni” sono:

 

Prima classificata

Nel sogno, camminavo · Francesco Scaramozzino

Seconda classificata

Gocce · Andrea Simion

Terza classificata

JURIJ · Franco Ortenzi

 

Poesie segnalate

Nullo · Simonetta Barsotti

Di mio padre memoria · Franco Fiorini

Visioni · Edoardo Penoncini

Menzione speciale

Safa Serine Mezine e Alessandro Iozzelli

Nel sogno, camminavo

 

*

Nel sogno, camminavo

piano per proteggere

i molti eventi della schiusa,

perché le uova erano ovunque

nel mio corpo e io usavo per loro

tutte le premure del discorso,

alcune si rompevano

urtandosi casualmente

come gli atomi di Democrito,

ma io godevo dell’abbondanza

dei gusci che crescevano in me

triplicandosi ogni giorno,

aspettavo l’alba in cui il corpo

inciso dallo stridere

assordante dei nidi

sperimenta la figura dell’albero,

la sola eco della gioia

che ogni foglia

ripete a memoria,

la parte inaccessibile

dell’ombra e della parola.

Francesco Scaramozzino (Melzo, MI)

Gocce

 

Nel buio domenicale

lanoso, invernale

in una stazione di tramontana

mi trovavo.

Sotto una pioggia anguilla

lambivo i vent’anni

con scarsa indifferenza

nella sala d’attesa

di dolcezza europea.

Attinto dai rumori

dei miei pensieri mortali

– o erano i treni? –

donai un sorriso

a una passante.

Immaginai

con elegante vertigine

di fermarmi a leggere

accanto a lei.

Eppure, partii

col cuore sciarada.

Ancora oggi ci passo

resta solo la pioggia.

La assaporo piano

goccia a goccia.

Andrea Simion (Verona)

JURIJ

 

… chetyre, tri, dva, a, pojéchali

Il fragore della deflagrazione,

cinquanta metri sotto di lui,

lo raggiunse immediatamente.

Quindi il tempo si ravvide per pochi istanti

dal peccato di incedere inesorabilmente,

come fa d’abitudine, in spregio ai nostri pensieri, all’esordio dei sogni

di noi abbandonati animali,

contesi dai capricci della sorte.

Jurij trattenne il fiato, apnea mistica,

ogni cosa visibile all’immaginazione rimase immobile,

chiuso nel buio di un uovo meccanico.

Nel fondo della sua retina registrò ogni piccola variazione,

sensazioni,

scansioni dello spazio terreno e della memoria,

i verdi Kolchoz, la grigia lastra del Barents,

l’argentea luminescenza delle stelle.

L’imperativa transizione delle viscere attratte dal centro del mondo

lo riportò all’immanenza, alla particolarità della circostanza.

In frammentati momenti il vuoto lo accolse,

il nero assoluto del cosmo avvolse ogni cosa.

Un punto azzurro attirò la sua attenzione,

quell’insolita variante al cospetto di tutta la creazione.

E pur essendo ateo per definizione la contemplò come un’immagine sacra.

L’icona meravigliosamente decorata,

striata di nuvole bianche alla sua vista si offrì.

Pochi minuti dopo fu di ritorno.

Lo ritrovò in mezzo a un campo una povera contadina.

Come nelle fiabe chiese da dove venisse.

Da lassù, rispose

Franco Ortenzi (San Felice Circeo, LT)

Nullo

Nullo ha spalle larghe e passi di nebbia.

L’acqua del Po gli scorre nelle vene.

Lo sanno tutti che non è pazzo.

Solo un po’ spostato, ma dalla parte giusta.

Sta nel limbo dei figli rifiutati, fatto di silenzi e spazi grigi,

di caos e incontinenze.

Di croci ingiuste.

L’hanno lasciato lì, appena nato, ultimo di povera prole proletaria,

davanti all’Istituto.

A lui basta poco per essere felice: una manciata di luce e un guscio

dove stare in pace.

Dentro ha trovato l’angelo che gli ha toccato il cuore,

una ragazza che si è cucita addosso l’abito di santa, dopo una violenza.

Si sdraiano, di notte, l’uno accanto all’altra.

Sanno di muschio e ciclamini in boccio, un intero sottobosco.

Nullo a volte esce.

Sorride a tutti, negli occhi una carezza per chi gli si avvicina.

Nullo, uguale a zero per il mondo intero,

dentro è tutto.

Asciuga le lacrime di quei diversi, regala abbracci alle anime perse,

consola con lo sguardo e costruisce bare, con forza solitaria.

Perché anche lì si muore.

Ci pensa a volte a stare fuori,

in mezzo agli altri.

Poi resta.

Simonetta Barsotti (Livorno)

Di mio padre memoria

 

Della mia terra un pugno ho sollevato

calda ancora e fumante come allora

al vomere lucente presto arresa

d’argilla aperto il cuore a semi d’oro.

Di mattini racconta di rugiade

di soli a picco a campi di sudore

del canto della pioggia sulle zolle

e dei tramonti accesi alle colline.

Dolce mi porta il gusto di vitalba

rubato piano a siepi di germogli

e l’agrodolce ansioso delle more

fatte inchiostro su labbra di fanciulli.

Mi canta di corse all’ultimo fiato

a sfiorare i papaveri e le spighe

violare dune rosse di ciliegi

e planare a mari verdi di trifogli.

Pescano al fondo le mie radici

mi parlano di vigne e di sementi

di ulivi millenari in mezzo ai sassi

prodighi ed aspri come la mia gente.

Di mio padre memoria i suoi ritorni

specchiati dentro agli occhi dell’attesa

sulla soglia il mondo da abbracciare

nelle sue mani le mie da scaldare.

Di quella terra un pugno m’è restato

mi parla di un passato ormai lontano

ma non chiede il presente nostalgia

è il frutto pieno della terra mia.

Franco Fiorini (Veroli, FR)

Visioni

 

Sollevo gli occhi dal libro,

il treno è il tempo di chi viaggia solo:

una ragazza seduta di fronte

un libro tra le mani

gli occhi di là dal finestrino.

Forse vediamo le stesse cose,

non so in che modo ognuno le fa sue:

tutto viene e va

tutto si accende e si spegne.

E torna il solito tarlo:

in quale direzione del treno

sono seduto?

Siamo due specchi, io e la giovane:

uno riflette l’altro assorbe,

di là dal finestrino i miei occhi

sono facile preda di un dèmone,

ad occhi chiusi la ragazza

apre le braccia alla speranza:

è il treno il suo angelo custode.

Edoardo Penoncini (Ferrara)

Filarmonica Borgognoni © 2024

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